Il disastroso dogma dell’austerità

 

Da anni ormai ci sentiamo ripetere che l‘elevato debito pubblico italiano è “insostenibile” e che costituisce un problema cruciale per l’economia del paese, per cui occorre fronteggiarlo con misure drastiche per evitare la bancarotta.

Tecnocrati e politici arrivano persino a sostenere che un ulteriore accrescimento del debito pubblico andrebbe a gravare sulle generazioni future e che le famigerate manovre di “lacrime e sangue”,  che si traducono soprattutto  in un aumento della pressione fiscale, sono l’unico mezzo per scongiurare questo pericolo.  In altri termini, chiedono ai cittadini di oggi di sottoporsi a crescenti sacrifici impoverendosi per evitare di impoverire i posteri, che probabilmente nemmeno conosceranno.

Queste argomentazioni, che servono a legittimare il disastroso dogma dell’austerità,  si basano su due assiomi fallaci: l’assurda equiparazione del debito delle famiglie con il debito dello Stato e il principio secondo cui il nostro debito pubblico sarebbe eccessivamente elevato mentre non è affatto dimostrato (né dimostrabile) che lo sia davvero.

Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, non sussiste alcun criterio “scientifico” per definire il limite di sostenibilità del debito.  A titolo esemplificativo si potrebbe citare il caso del Giappone dove con un rapporto debito pubblico/PIL che oscilla intorno al 240% non sussistono problemi di sostenibilità dello stesso.

E’ opportuno anche ricordare che il rapporto debito pubblico/PIL italiano è sostanzialmente in linea con la media dei Paesi appartenenti all’Unione Monetaria Europea e che, stando a studi recenti relativi alla quantificazione del cosiddetto debito pubblico “implicito”, sembrerebbe che il debito italiano in rapporto al PIL sia persino inferiore  a quello di tutti i Paesi dell’eurozona, Germania inclusa.
La necessità di ridurre la spesa pubblica viene in parte giustificata dal rischio che possa altrimenti alimentare  corruzione, sprechi e  inefficienze.  Eppure la spesa pubblica, anche se  improduttiva, serve a generare crescita economica secondo il ben noto meccanismo keynesiano in base al quale la spesa pubblica, incrementando la domanda aggregata, fa crescere l’occupazione e la produzione, con effetti moltiplicativi. Quando la domanda aggregata è elevata, la capacità produttiva è utilizzata per intero, cala la disoccupazione e, quindi, il prodotto effettivo è anche uguale al prodotto potenziale. Se, viceversa, la domanda è scarsa, le imprese riducono la loro produzione (e quindi anche il numero di lavoratori occupati) fino a quando la quantità di beni offerta è pari alla domanda aggregata. Ampliando  i mercati di sbocco, si incentivano gli investimenti privati e si aumentano le potenzialità  imprenditoriali.

Al contrario, riducendo la spesa pubblica ed aumentando la tassazione si agisce esclusivamente sul numeratore della frazione, con la conseguente caduta della domanda e dell’occupazione e questo genera inevitabilmente la diminuzione del tasso di crescita. La conseguente contrazione della base imponibile rende sempre più difficile reperire risorse per pagare il debito quindi più si cerca di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, tanto più questo rapporto aumenta e tanto più l’onere dell’aggiustamento si trasferisce sulle generazioni successive, in una spirale perversa che genera il progressivo  impoverimento (nell’ordine) dei lavoratori, delle classi medie, delle piccole e medie imprese e, infine, della forza-lavoro giovanile.

L’esperienza dell’ultimo decennio avrebbe dovuto rendere evidente a tutti  l’innegabile fallimento delle politiche di austerità, ed è inaccettabile che si cerchi di motivarle con presunte argomentazioni etiche quando si dovrebbe invece cercare di arginare la crescente disuguaglianza tra classi sociali che quelle stesse politiche hanno contribuito a causare.

Patrizia Ciava

Come si spiega che l’Italia, pur avendo la maggiore stabilità tra i paesi europei, è considerata “a rischio” dalle società di rating?

E’ infatti una clamorosa menzogna dire che l’Italia sia insolvente.

Lo Stato italiano è uno dei pochi al mondo ad avere un avanzo primario, ovvero a incassare più di quello che spende, al netto degli interessi che paga sul debito pubblico. La posizione debitoria italiana è solida, perché non esiste solo il rapporto debito pubblico/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht. Se tra i criteri di sostenibilità di un’economia si considera anche il debito privato, l’Italia risulta uno dei Paesi più stabili d’Europa.

L’indebitamento delle famiglie italiane e delle società non finanziarie italiane è il più basso d’Europa (42% del Pil, contro il 103 britannico, l’84 spagnolo, il 63 tedesco e il 51 francese) e ciò rende il debito aggregato italiano (pubblico più privato) inferiore a quello di Gran Bretagna, Spagna e Francia, e analogo a quello della Germania.

debito-pubblico-stati

Debito pubblico. Ancor più discutibile, e sempre meno aderente alla realtà odierna, è il voler continuare a parametrare il debito esclusivamente in base al Pil. Nell’80% dei casi, il rapporto debito/Pil rivela l’esistenza (o meno) di un debito pubblico troppo elevato. Ma nel restante 20% dei casi tale rapporto o sopravvaluta il reale livello di pericolosità del debito (come nel caso di Italia e Belgio) o lo sottovaluta (come nel caso della Spagna), non tenendo conto del fatto che l’equilibrio finanziario tra settore pubblico e privato non è dato dal rapporto debito/Pil, ma da quello tra debito pubblico e stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Tale ricchezza in genere è correlata al Pil ed è di poco superiore al prodotto (Germania, Francia). Ma non sempre è così. In alcuni casi, la ricchezza è di molto superiore al Pil (Italia, Olanda, Belgio), mentre in altri casi è invece inferiore allo stesso, anche in misura considerevole (Grecia, Irlanda e Spagna).

 

Ricchezza privata. È sullo stock della ricchezza finanziaria netta delle famiglie che si fonda la solidità dei sistemi finanziari nazionali (banche e assicurazioni) e la loro capacità di sostenere gli acquisti di titoli di Stato da parte dei residenti. Disconoscere questo aspetto è un grave danno di immagine per l’Italia, con un immeritato impatto negativo sul nostro rating sovrano. Basti pensare che il debito pubblico italiano, in rapporto al Pil, nel 2012 è stato il secondo dell’Ue dopo quello greco, ma in realtà è solo il 14° se misurato in base alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie (laddove Francia e Germania sono, rispettivamente, al 16° e 17° posto).

 

Debito/Pil e debito/ricchezza. Per capire come interagiscono tra loro queste grandezze, è interessante notare come il nostro debito pubblico, che in rapporto al Pil tra 2011 e 2012 è salito dal 120,7% al 127%, è invece sceso dal 73% al 71% in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Al contrario, il debito spagnolo non solo è cresciuto dal 70,5% all’86% in rapporto al Pil ma anche dall’89,4% al 100,8% della ricchezza. Nel 2012 il debito pubblico italiano in rapporto alla ricchezza era solo di poco superiore a quelli di Francia e Germania, mentre quello spagnolo è cresciuto vertiginosamente dal 2007 al 2012 e continuerà ad aumentare nel 2013-14 mentre il nostro diminuirà. Debito in valore assoluto. Inoltre, pochi sanno che dal terzo trimestre 2008 al secondo trimestre 2013 il debito pubblico italiano è, dopo il debito della Svezia, quello cresciuto di meno nell’Ue in termini monetari (+26% confrontato col +48% della Francia, +106% della Gran Bretagna e +135% della Spagna). Se lo misurassimo in soldi anziché in rapporto al Pil, scopriremmo che da quando è fallita la Lehman Brothers sino a metà 2012 l’aumento del debito italiano è stato in valore assoluto di 422 miliardi di euro: una cifra ragguardevole, ma solo la quinta nell’Ue dietro a Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania.

 

 

Debito estero. Va considerato che il debito italiano detenuto da non residenti era a fine 2012 pari a 698 miliardi di euro (cresciuto di soli 24 miliardi rispetto al 2008) contro i 1.022 miliardi della Francia (+297 miliardi) e i 1.145 miliardi della Germania (+345 miliardi). Evidentemente ad altri Paesi fa comodo che una grande nazione come l’Italia continui ad essere considerata un investimento a rischio. Essi possono così più facilmente attrarre capitali esteri verso i propri debiti pubblici, che, senza tali capitali, dovrebbero altrimenti essere finanziati dai residenti.

Rischio sovrano. Pochi sanno che la stessa Commissione Europea ha elaborato ben tre indici di rischio finanziario con cui misurare la sostenibilità dei Paesi nel breve e nel medio-lungo termine. In base all’indice S0 l’Italia presenta un basso rischio finanziario a breve, mentre a medio-lungo termine presenta un debole rischio medio secondo l’indicatore S1 (che indica lo sforzo fiscale necessario per ridurre il debito al 60% del Pil nel 2030) e addirittura il rischio più basso in assoluto secondo l’indice S2 (che tiene conto anche dei costi futuri legati all’invecchiamento e alle pensioni). Conclusioni. Conoscere di più il nostro debito pubblico e compararlo più correttamente con quelli degli altri Paesi non significa sottovalutarlo. Serve però a renderci più consapevoli della reale situazione in cui ci troviamo e a permetterci di far valere meglio le nostre ragioni a Bruxelles, nelle sedi internazionali e con le agenzie di rating, che spesso ci penalizzano ben oltre il dovuto.

di Marco Fortis – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/X19pP

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-11-05/l-italia-virtuosa-batte-spagna-indebitata-082433.shtml?uuid=ABOudWb

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“Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora?  «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».

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