Imporre l’obbligatorietà del vaccino anti-Covid, anche attraverso l’adozione di un pass che consenta di viaggiare o recarsi in luoghi pubblici discriminando di fatto chi non è vaccinato, è una scelta legislativa e di politica sanitaria che incontra qualche ostacolo giuridico di respiro internazionale e qualche contraccolpo etico poiché, parlando di vaccinazioni anti-Covid, siamo ancora nel campo della sperimentazione.
Se ciò non toglie nulla sotto il profilo della scientificità e qualità dei dati acquisiti sulla base dei quali ne è stato autorizzato il commercio da parte delle autorità regolatorie è vero anche che per attendere il completamento dell’ultima fase sperimentale dei vaccini anti-Covid occorre, necessariamente, tempo.
Siamo infatti all’indomani della fase 3 e all’alba della fase 4 della sperimentazione vaccinale anti-Covid ossia quella post-autorizzativa ove vengono condotti studi dopo la commercializzazione, con l’obiettivo di verificare l’efficacia e la sicurezza del vaccino nelle sue reali condizioni d’uso, di valutarne l’utilizzo in particolari sottogruppi di popolazione e condizioni patologiche, di verificarne il rapporto beneficio/rischio rispetto alla malattia.
Quindi al momento né l’EMA né alcun ente regolatorio è in grado di affermare che i benefici superano i rischi, come invece hanno fatto in maniera del tutto arbitraria.
Tali studi vengono condotti per valutare in maniera continuativa, nel breve e nel lungo termine, la sicurezza e l’efficacia dei vaccini nella pratica clinica e devono rispondere, al pari di ogni altro, agli standard internazionali di etica e qualità scientifica previsti dalle norme di buona pratica clinica, codificate a livello globale (Good Clinical Practice, GCP).
Studi che richiedono tempo, un tempo di osservazione di lungo periodo, ed anche se l’emergenza spinge a correre non si possono trascurare quei principi, o meglio quelle garanzie, che sono alla base della sperimentazione.
Principi cardine in ambito sperimentale sono, tra gli altri, l’adesione volontaria alla sperimentazione e il rigoroso rispetto del consenso informato che, come ogni giurista sa, deve avere in tale ambito contenuto ancor più completo.
Mera burocrazia, si sente dire da più parti, ma che invece è la base giuridica ed etica che fonda la sperimentazione clinica e che trova le sue radici storiche più profonde nel codice di Norimberga.
Un consenso che va di pari passo con la diffusione e la condivisione con la comunità dei risultati della ricerca, dei dati scientifici disponibili, di qualsiasi intervento effettivo sviluppato e delle conoscenze acquisite in termini di rischio e benefici. Un consenso intimamente legato al principio di autonomia, alla qualità scientifica, alla trasparenza della comunicazione.
Perché alla base di una libera scelta non può che esserci una comunicazione trasparente ed efficace dei dati acquisiti, una comunicazione scientifica che sia comprensibile dal cittadino il quale si trova in evidente posizione di asimmetria informativa.
E allora è anche questa la sfida in ambito vaccinale a cui siamo chiamati: attuare una comunicazione trasparente, oggettiva ed efficace, scevra da impeti di emotività e da interessi economici e geopolitici, che metta il cittadino in condizione di comprendere, ponderare e scegliere sulla base delle evidenze rischi/benefici.
Inoltre, Il calcolo rischi/benefici andrebbe fatto semmai per fasce di popolazione, visto che a tutt’oggi, secondo le stime aggiornate dell’ISS emerge che l’età media dei decessi da Covid è 81 anni (>80 fin dall’inizio della pandemia) e nel 97% dei casi si tratta di persone con 2 o 3 gravi patologie pregresse. Il Covid può quindi comportare un decorso pericoloso per la popolazione sopra i 60/70 anni, mentre per i giovani sotto i 50 ha generalmente le caratteristiche di una banale influenza. In quest’ottica, il rischio di sottoporre un giovane al vaccino sperimentale è sicuramente maggiore della malattia stessa. Per una donna di età inferiore a 40 anni il rischio di trombosi dopo il vaccino è 3 volte più alto del rischio di morte per Covid-19.
Il frastuono mediatico, i silenzi e gli stereotipi istituzionali, i repentini cambi di posizione delle Autorità Regolatorie, le fosche nebbie che avvolgono i rapporti contrattuali con le case farmaceutiche si sono rivelati il più profondo nemico della campagna vaccinale.
Un’adesione alla vaccinazione, ancor più se in una fase sperimentale, non può infatti prescindere da una comunicazione scientifica, oggettiva e trasparente quale strumento imprescindibile in grado di generare consapevolezza e fiducia nei cittadini.
Un comunicazione che chiama in campo le Istituzioni, le Autorità Regolatorie, ma anche ogni singolo operatore sanitario e i media, tutti chiamati al compito, oltre che al dovere, di comunicare in maniera completa e corretta, ossia di mettere in comune, nella relazione con gli altri, informazioni.
L’agire comunicativo è una responsabilità etica, politica, istituzionale e deontologica con effetti persuasivi in grado di incidere concretamente sulla responsabilità individuale e su quella collettiva in quell’intimo intreccio che, in ossequio ai doveri solidaristici, connota il diritto alla salute.
Dopo un anno di pandemia, l’auspicato “agire comunicativo”, proprio perché ben lungi dall’essere stato improntato a “trasparenza” “oggettività” ed “efficacia”, ha semmai creato le condizioni per una sfiducia del cittadino verso la tutela dei suoi diritti, ivi compreso il proprio bene salute.
Sotto il profilo della tutela della salute del personale sanitario, elevato precedentemente al rango angelico nonché candidabile al Nobel, è assurdo prevedere l’imposizione dell’obbligo di una vaccinazione sperimentale che non sarebbe comunque in grado di impedire la reinfezione dei sanitari vaccinati e la conseguente trasmissibilità del virus ai pazienti.
Una visione miope della lotta alla pandemia ha fatto dimenticare alla politica che la tutela materiale della salute non si gioca soltanto sul versante epidemiologico ma anche e soprattutto sulla risposta del paziente e del medico al virus medesimo, come ha dimostrato il passaggio, a mezzo TAR Lazio, dalla “Tachipirina e vigile attesa” alla prescrizione odierna degli anticorpi monoclonali da parte di quegli stessi medici di base che, in assenza di indicazioni ministeriali, si erano presi la responsabilità di curare a domicilio i pazienti.
Pur non essendo vincolante per gli Stati, è bene ricordare che è stata recentemente approvata la risoluzione n. 2361 (2021) dal Consiglio d’Europa che vieta agli Stati di rendere obbligatoria la vaccinazione Covid e vieta di usarla per discriminare lavoratori o chiunque non decida di non avvalersi della vaccinazione.
7.3.1 assicurarsi che i cittadini siano informati che la vaccinazione NON è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni per farsi vaccinare, se non desiderano farlo da soli;
7.3.2 garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato;
7.1.4 attuare sistemi efficaci di monitoraggio dei vaccini e della loro sicurezza a seguito della loro diffusione presso la popolazione generale, anche al fine di monitorarne gli effetti a lungo termine;
7.1.5 mettere in atto programmi di compensazione vaccinale indipendenti per garantire il risarcimento di danni indebiti e danni derivanti dalla vaccinazione;
In caso di violazioni si potrà denunciare il fatto, come violazione delle regole a cui gli Stati membri si devono attenere, al Segretario del Consiglio d’Europa.
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