Il branco: uomini e lupi

Non parliamo di «branco» per definire i criminali: solo l’uomo sa essere «bestiale»

In natura il termine «branco» definisce l’equivalente di una famiglia: un concetto estremamente positivo, che non deve essere associato a episodi di delinquenza o di crudeltà.

Ignoriamo come vivono veramente gli animali o preferiamo fingere di non saperlo, e attribuiamo a loro, per esempio ai lupi, un comportamento che invece è squisitamente umano, e che ci ostiniamo a definire «bestiale».

Il branco è un modello di organizzazione sociale estremamente raffinato e complesso, insieme gerarchico e dinamico, fondato sulla solidarietà e sulla cooperazione. Tutti gli animali sociali si organizzano in branchi più o meno strutturati, prima di tutto per garantire la propria sopravvivenza: e i lupi costituiscono da questo punto di vista un’eccellenza.

Un branco di lupi è in buona sostanza una famiglia allargata, al cui interno ognuno ha un compito ben definito. La vita sociale dei lupi è complessa, richiede abilità cognitive, lealtà e assistenza reciproca, e ruoli differenziati; per esempio sono pochi quelli che vanno a caccia ma poi sempre condividono la preda. 

Al vertice c’è la coppia alfa, la sola che una volta l’anno si riproduce: il capobranco vero e proprio quasi sempre è il maschio, anche se si sono osservati branchi guidati da una femmina. Contrariamente all’opinione corrente, il capobranco non è necessariamente il più forte: la sua intelligenza e le sue qualità psicologiche sono più importanti della forza fisica.

Il cosiddetto maschio alfa in realtà non è un boss, un prepotente, ma si prende cura degli altri, si comporta in modo tollerante ma fermo. Grazie alla sua forza, non solo fisica, ma anche psicologica, è in grado di soddisfare le esigenze del branco, di tenerlo unito, di proteggerlo dagli estranei, di pattugliare e marcare il territorio, di scegliere i sistemi di difesa e le strategie di caccia, di stabilire la disposizione delle tane, di essere, in una parola, il leader. Altrettanto autorevole è la femmina Alfa. La leadership del capobranco è un perfetto equilibrio di forza e di fiducia. È lui a organizzare e a guidare la caccia, è lui il primo a cibarsi della preda. Ogni mattina, al risveglio, il branco lo saluta avvicinandosi a turno e leccandogli rapidamente il muso. Ma non si è capibranco a vita: è un lavoro faticoso che normalmente non dura più di due o tre anni (i lupi in libertà vivono intorno ai dieci anni, e arrivano a completa maturità psicofisica a tre). Il passaggio delle consegne è solitamente pacifico, e non di rado il lupo anziano resta a far parte del branco.

Il lupo è una specie monogama, rimane fedele alla propria compagna per tutta la vita. La femmina che partorisce viene aiutata nella cura dei piccoli, non solo dal compagno ma anche dagli altri individui del gruppo.

Un ruolo essenziale è quello del cosiddetto maschio beta, che di norma è un fratello del capobranco. La sua funzione, se così possiamo dire, è a metà fra quella del capo di gabinetto e quella dello sportivo che «fa spogliatoio» rinvigorendo la solidarietà della squadra. Non è il leader, ma ha la capacità di stabilizzare la coesione del gruppo, smussare i conflitti, intervenire dove necessario. È tuttavia piuttosto raro che diventi a sua volta capobranco, sebbene non mancano gli esempi contrari.

Gli altri membri del branco sono, in linea di massima, i figli e le figlie della coppia alfa: due, qualche volta tre generazioni di lupi che convivono insieme fino alla maturità partecipando alla caccia, alla marcatura e alla difesa del territorio, alla cura dei fratellini appena nati (fra gli aspetti più straordinari della vita dei lupi c’è la dedizione che tutto il branco dedica ai cuccioli, spesso sostituendosi a turno alla madre e al padre impegnati altrove). Quando raggiungono i tre o quattro anni di età, i giovani lupi se ne vanno per la loro strada, qualche volta insieme — per esempio due maschi, oppure due femmine — e qualche volta da soli, per dare vita ad un nuovo branco.

Il lupo solitario, sebbene ci appaia una figura romantica, è in realtà un asociale che è stato cacciato da un branco oppure che non è stato in grado di formarne uno: la sua vita è faticosa e necessariamente breve.

La vita del branco è solidale, e ciascuno è impegnato per il benessere del gruppo perché sa che soltanto così le possibilità di sopravvivenza aumentano: i legami parentali, affettivi e sociali garantiscono efficienza e solidarietà.

Gli scontri per risalire la scala gerarchica tra lupi di rango inferiore sono comportamenti di lotta ritualizzata, possono consistere in tattiche ti tipo giocoso, che evitano di giungere ad uno scontro cruento, o in atteggiamenti di sottomissione posti in essere dal perdente al fine di placare l’aggressività dell’animale più forte. A volte più individui, uniti da un vincolo di tipo “politico”, si coalizzano contro lo sfidante, che è costretto a sottomettersi rapidamente, per riportare il minimo dei danni, ma dovrà poi scegliere se accettare un ruolo gregario, o lasciare il branco.

Ditemi voi se questo modello può essere paragonato ai crimini che troppo spesso noi umani compiamo in gruppo. Soltanto gli uomini sanno essere «bestiali» nel senso in cui usiamo questo termine: nessuna bestia sevizia, tortura, uccide un proprio simile.  L’aggressività nel mondo animale è sempre fortemente motivata — dalla necessità di nutrirsi o di riprodursi: cioè dalla necessità di sopravvivere come individuo e come specie — e non è mai gratuita, non necessaria.

Uccidere e far soffrire è sempre stata una caratteristica dell’essere umano, purtroppo.

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