Intervento dello storico e filosofo israeliano Yuval Noah Harari, apparso sul Financial Times il 5 aprile 2020.
“La tempesta passerà, l’umanità sopravviverà, la maggior parte di noi sarà ancora in vita — ma abiteremo un mondo diverso.”
Il genere umano sta fronteggiando una crisi globale. Forse la più grande crisi della nostra generazione. Le decisioni delle prossime settimane disegneranno il mondo futuro. Non solo i nostri sistemi sanitari, ma anche l’economia, la politica e la cultura.
Molte misure di emergenza temporanee diventeranno durature. Questa è la natura delle emergenze. Esse accelerano i processi storici. Decisioni che in tempi normali richiederebbero anni di preparazione vengono assunte nel giro di poche ore. Tecnologie non sperimentate, e persino pericolose, sono attivate, perché i rischi di non fare niente sono maggiori e qualcosa si deve pur fare. Intere popolazioni diventano cavie di esperimenti sociali su larga scala, tutti lavorano da casa e comunicano solo a distanza; intere scuole e università fanno lezioni unicamente online. In tempi normali, i governi, le imprese e i consigli d’istituto non avrebbero mai accettato di condurre tali esperimenti. Ma questi non sono tempi normali.
In questo periodo di crisi, ci troviamo di fronte a due scelte particolarmente importanti. La prima è tra una sorveglianza totalitaria oppure la responsabilizzazione dei cittadini. La seconda è tra isolamento nazionalista oppure solidarietà globale.
Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, la tecnologia permette di controllare tutti in modo continuativo e perpetuo.
Nella loro battaglia contro la pandemia diversi governi hanno già utilizzato i nuovi strumenti di sorveglianza. Il caso più eclatante è quello della Cina. Monitorando continuamente gli smartphone delle persone, utilizzando centinaia di milioni di telecamere che riconoscono i volti e obbligando le persone a controllare e segnalare la temperatura corporea e le condizioni mediche, le autorità cinesi possono non solo identificare rapidamente i sospetti portatori di virus, ma anche tracciare i loro movimenti e identificare chiunque sia entrato in contatto con loro. Alcune applicazioni mobili avvertono i cittadini della loro prossimità a pazienti infetti.
Questo tipo di tecnologia non si limita solo all’Estremo oriente. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente autorizzato l’Agenzia israeliana per la sicurezza a utilizzare la tecnologia di sorveglianza, normalmente finalizzata alla lotta contro i terroristi, per rintracciare i pazienti affetti da coronavirus. Quando la sottocommissione parlamentare competente ha rifiutato di autorizzare la misura, Netanyahu l’ha comunque approvata con un “decreto d’emergenza”.
Si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Negli ultimi anni sia i governi che le aziende hanno utilizzato tecnologie sempre più sofisticate per tracciare, monitorare e manipolare le persone. Eppure, se non stiamo attenti, l’epidemia potrebbe segnare un importante spartiacque nella storia della sorveglianza. Non solo perché potrebbe legittimare l’impiego di strumenti di sorveglianza di massa nei paesi che finora li hanno respinti, ma ancora di più perché significa una passaggio preoccupante dalla sorveglianza esterna “over the skin” a quella interna “under the skin”
Finora, quando il dito toccava lo schermo dello smartphone per cliccare su un link, il governo voleva sapere su cosa esattamente si stava cliccando. Ma con il coronavirus, il centro dell’interesse si è spostato. Ora il governo vuole sapere la temperatura del dito e la pressione sanguigna del tocco.
Uno dei problemi che dobbiamo affrontare per capire la sorveglianza è che nessuno di noi sa esattamente come saremo sorvegliati e cosa potrebbe succedere nei prossimi anni. La tecnologia di sorveglianza si sta sviluppando a passi da gigante, e quella che 10 anni fa sembrava pura fantascienza, oggi, è archeologia.
Ipotizziamo un governo che richieda a ogni cittadino di indossare un braccialetto biometrico che monitori la temperatura corporea e la frequenza cardiaca 24 ore al giorno. I dati risultanti saranno memorizzati e analizzati da algoritmi governativi. Gli algoritmi sapranno se sei malato prima ancora che tu lo sappia e sapranno anche dove sei stato e chi hai incontrato. La catena del contagio potrebbero essere drasticamente accorciata e persino eliminata completamente. Un siffatto sistema potrebbe fermare l’epidemia nel giro di pochi giorni. Sembra fantastico, vero?
Ma c’è il rovescio della medaglia. E Il rovescio della medaglia è che questo sistema sdoganerebbe un nuovo terrificante sistema di sorveglianza. Se si sa, per esempio, che una persona clicca su un link di Fox News piuttosto che su uno di CNN, questo può dire qualcosa sulle sue opinioni politiche e forse anche sulla sua personalità. Ma se si può controllare la temperatura corporea, la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca di qualcuno che guarda un videoclip, si può verificare se tale contenuto suscita ilarità, commozione o irritazione.
È importante ricordare che la rabbia, la gioia, la noia e l’amore sono fenomeni biologici come la febbre e la tosse. La stessa tecnologia che identifica la tosse potrebbe anche riconoscere la gioia. Se le aziende e i governi cominciano a raccogliere i nostri dati biometrici in modo massiccio, possono conoscerci molto meglio di quanto ci conosciamo noi stessi e possono quindi, non soltanto indovinare i nostri sentimenti, ma anche manipolarli così da venderci tutto ciò che vogliono — sia che si tratti di un prodotto che di un politico. Il monitoraggio biometrico fa apparire le tattiche di hacking dei dati di Cambridge Analytica come qualcosa dell’età della pietra. Immaginate la Corea del Nord nel 2030, quando ogni cittadino deve indossare un braccialetto biometrico 24 ore al giorno. Se ascolti un discorso del Grande Leader e il braccialetto intercetta segni di dissenso, sei spacciato.
Certo, si potrebbe, comprensibilmente, adottare la sorveglianza biometrica come misura temporanea durante lo stato di emergenza. Una volta terminata l’emergenza, si dovrebbe sospendere. Ma le misure temporanee hanno la cattiva abitudine di permanere nel tempo, tanto più che, all’orizzonte, c’è sempre una nuova emergenza in agguato.
Anche quando i contagi da coronavirus saranno a zero, alcuni governi affamati di dati potrebbero voler mantenere i sistemi di sorveglianza biometrica perché temono una seconda ondata di coronavirus, o perché c’è un nuovo ceppo di Ebola che si sta evolvendo in Africa centrale, o perché… si capisce l’idea, no?
Negli ultimi anni si è scatenata una grande battaglia sulla privacy. La crisi del coronavirus potrebbe essere il punto di svolta di questa battaglia. Perché quando alle persone viene data la possibilità di scegliere tra privacy e salute, scelgono la salute. Potremmo finire con il vedere andare in fumo le nostre libertà più preziose, con l’alibi che questo sia l’unico modo per salvaguardare la nostra salute.
Chiedere alle persone di scegliere tra privacy e salute è una falsa scelta. Possiamo e dobbiamo avere sia la privacy sia la salute. Possiamo scegliere di proteggere la nostra salute e fermare l’epidemia di coronavirus senza bisogno di sistemi di sorveglianza totalitari, ma piuttosto dando responsabilità ai cittadini.
Il monitoraggio centralizzato e le punizioni esemplari non sono l’unico modo per convincere le persone a rispettare le regole. Quando le persone vengono informate dei fatti scientifici, e quando la gente si fida della versione delle autorità pubbliche, i cittadini possono fare la cosa giusta anche senza un Grande Fratello che veglia sulle loro spalle. Una popolazione motivata e ben informata è di solito molto più risolutiva ed efficace di una popolazione oppressa e ignorante.
Negli ultimi anni, politici irresponsabili hanno deliberatamente minato la fiducia nella scienza, nelle autorità pubbliche e nei media. Ora questi stessi politici irresponsabili potrebbero essere tentati di prendere la strada dell’autoritarismo, sostenendo che non ci si può fidare della gente per fare la cosa giusta.
Invece di costruire un regime di sorveglianza, occorre ristabilire la fiducia della gente nella scienza, nelle autorità pubbliche e nei media.
La seconda importante scelta che dobbiamo affrontare è tra isolamento nazionalista e solidarietà globale. Sia l’epidemia sia la crisi economica, che ne è la conseguenza, sono problemi globali. Possono essere risolti efficacemente solo con la cooperazione globale.
I Paesi dovrebbero essere disposti a condividere le informazioni in modo aperto e chiedere umilmente consigli. Dovrebbero potersi fidare dei dati e delle indicazioni che ricevono. C’è anche bisogno di uno sforzo globale per produrre e condividere attrezzature mediche.
L’umanità deve fare una scelta. Percorreremo la via della disunione o adotteremo la via della solidarietà globale? Se scegliamo la disunione, questo non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente porterà in futuro a catastrofi ancora peggiori.
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