Il ponte che dovrebbe unire e invece divide

Tra retorica, autonomia sprecata e opportunità perdute, il Ponte sullo Stretto resta prigioniero di un equivoco: è diventato simbolo di contrapposizione politica, anziché di sviluppo.

C’è un’Italia che sogna il futuro, e un’altra che non smette di remare contro. Da oltre mezzo secolo, il Ponte sullo Stretto di Messina compare e scompare dalle agende politiche come un miraggio che promette progresso, lavoro, modernità. Eppure, ogni volta che la promessa sembra diventare realtà, riaffiorano dubbi, studi dimenticati, emergenze più urgenti. Il Ponte sullo Stretto di Messina è diventato il simbolo di un’Italia che si divide tra sogni e sospetti, tra chi lo invoca come svolta epocale e chi lo liquida come spreco inutile. Ma forse, dopo anni di promesse mancate e narrazioni ideologiche, è il momento di riportare la discussione sul terreno della realtà: quella dei numeri, delle competenze e delle responsabilità.

È comodo accusare lo Stato centrale di aver dimenticato il Sud. Meno comodo ammettere che molte disfunzioni — strade dissestate, reti idriche inefficienti, sistemi di smaltimento precari — non dipendono da Roma, ma da decenni di cattiva gestione regionale.
La Sicilia, con il suo Statuto speciale e ampie risorse autonome, avrebbe potuto e dovuto garantire infrastrutture moderne, una gestione seria dell’acqua, una manutenzione costante del territorio. Invece, la politica regionale ha spesso preferito la logica dell’emergenza a quella della programmazione, trasformando l’autonomia in un privilegio sterile.

Il Ponte sullo Stretto non è un capriccio politico, ma un tassello strategico di un ampio disegno europeo: il Corridoio Scandinavo-Mediterraneo, il quinto dei nove corridoi TEN-T (Trans-European Transport Network).
L’obiettivo dell’Unione Europea è chiaro: creare una dorsale logistica che colleghi la Sicilia alla Scandinavia, integrando porti, ferrovie e autostrade per accelerare gli scambi commerciali nel continente.

I fondi destinati al Ponte non potrebbero in nessun caso essere utilizzati per altre opere locali. Si tratta di risorse vincolate, riservate a grandi infrastrutture di trasporto strategiche. Nessun “dirottamento” verso strade provinciali, acquedotti o termovalorizzatori è possibile: lo impone la normativa europea.
Bloccare il Ponte in nome di problemi locali, dunque, equivale a rinunciare a risorse che non si potrebbero comunque impiegare altrove.

Ogni giorno, centinaia di container provenienti da Suez passano a poche miglia dalla Sicilia per poi risalire verso il Nord Europa, approdando nei porti di Rotterdam e Amsterdam.
È lì che finiscono miliardi di euro di ricchezza che potrebbero invece restare in Italia, se solo i porti di Augusta e Gioia Tauro fossero collegati in modo efficiente al resto del Paese. Il Ponte, insieme all’alta velocità ferroviaria fino a Palermo, permetterebbe di intercettare quei flussi, creando occupazione e sviluppo reale, non assistenzialismo.

Il Ponte dovrebbe unire, non dividere. Non è soltanto un simbolo ingegneristico: è un atto di fiducia nel futuro del Sud.
Rifiutarlo per motivazioni politiche o ideologiche significa condannare Sicilia, Calabria e tutta l’Italia a una marginalità permanente, mentre il resto d’Europa costruisce connessioni, reti, velocità.

La vera domanda, allora, non è se possiamo permetterci di costruirlo — ma se possiamo permetterci di non farlo.

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