In un’epoca in cui la politica sembra aver smarrito il senso del limite, un’opposizione basata sul fair play apparirebbe rivoluzionaria.
Eppure, non è un’utopia ingenua, potrebbe essere una strategia vincente. Una sfida culturale prima ancora che politica, che richiede coraggio: quello di andare contro la deriva del tifo ideologico, delle fake news e della polarizzazione tossica.
Immaginate un contesto politico in cui i partiti avversari anziché screditarsi a vicenda, riconoscessero i meriti dell’altro. Un gesto di onestà intellettuale che oggi suona raro, se non addirittura impensabile, ma che potrebbe rivelarsi decisivo per riaccendere la fiducia dell’elettorato.
Criticare non dovrebbe ridursi a demolire. La critica è linfa vitale della democrazia, ma presuppone il rispetto dell’avversario e il riconoscimento della sua legittimità. Oggi, invece, prevale la logica della delegittimazione: l’altro non solo sbaglia, ma è moralmente indegno, corrotto, in malafede. Una strategia che alimenta le divisioni, inquina il dibattito pubblico e riduce la politica a uno scontro tribale tra tifoserie.
In questo clima esasperato, capita spesso che partiti incapaci di leggere con lucidità una sconfitta elettorale, non solo denigrino l’avversario vincente, ma finiscano col denigrare gli stessi elettori. È il riflesso automatico di chi rifiuta di assumersi la responsabilità di un errore politico o strategico: se si perde, la colpa è degli altri — o, peggio, del “popolo ignorante” che ha votato male. Ma questa postura difensiva e accusatoria non solo è miope, è anche pericolosa: mina le basi del patto democratico e allontana ulteriormente chi già fatica a sentirsi rappresentato.
Questa distruzione sistematica degli avversari politici funziona?
In parte, ma solo con i già convinti. È efficace per galvanizzare la base, lo zoccolo duro, le identità già consolidate del proprio elettorato di riferimento, al quale dà un senso di appartenenza. Ma così non si conquistano nuovi consensi e sempre più spesso si perdono le elezioni.
Il destino elettorale, infatti, si gioca altrove: tra gli indecisi, tra chi valuta di volta in volta, tra chi non si riconosce in nessuna appartenenza rigida; tra gli elettori liberi, fluttuanti, non ideologizzati. Tra coloro che non votano “contro”, ma “per”. Che non si accontentano di slogan, ma chiedono sostanza.
Sono questi i cittadini che fanno davvero la differenza. Ed è proprio a loro che un atteggiamento improntato a onestà e obiettività potrebbe parlare in modo più credibile.
L’elettore “libero”, colui che vota senza pregiudizi, è spesso anche quello più informato, più attento alle sfumature, meno sensibile alle narrazioni urlate. È una fascia dell’elettorato che chiede serietà, concretezza e verità. Una politica che rinuncia alla demonizzazione sistematica dell’altro e sceglie invece il rispetto e il confronto autentico potrebbe intercettare queste esigenze. Perché chi è abituato a pensare con la propria testa sa riconoscere il valore del confronto civile. E premia chi dimostra forza, non con l’arroganza, ma con l’umiltà.
Scommettere sul fair play, in fondo, non è solo una questione di etica. È una strategia politica lungimirante. Perché chi ha il coraggio di dire: “Su questo punto il mio avversario ha fatto bene” mostra forza, e non debolezza.
Il fair play potrebbe rivelarsi una scelta politica lungimirante. Chi rifiuta le scorciatoie delle fake news, mostra una forza diversa: quella della credibilità. E questa forza, nella cabina elettorale, può fare la differenza.