La narrazione tossica che vorrebbe farci credere di essere incapaci di superare tre chilometri di mare e che ostacola il progresso del Sud.
Aziende leader italiane hanno unito continenti, costruito ponti che sfidano oceani, dighe che domano montagne, ma ci dicono che non possiamo superare tre chilometri di mare per unire la Sicilia — terra di eccellenze che continuiamo ad associare solo a mafia e degrado — al resto d’Italia.
Ovunque nel mondo, Made in Italy è sinonimo di eccellenza, precisione, eleganza. Non solo cibo e moda, ma anche macchinari industriali di altissima tecnologia, design innovativo, nanotecnologie all’avanguardia, ricerca farmaceutica di livello mondiale. Dai cantieri navali di Monfalcone, che costruiscono alcune delle navi da crociera più grandi e sofisticate del pianeta, ai laboratori di Bologna dove si sviluppano macchine automatiche vendute e copiate ovunque, fino alla meccanica di precisione della Motor Valley emiliana, patria di Ferrari, Ducati, Lamborghini e Maserati. E ancora: microscopi e apparecchiature biomedicali, farmaci e vaccini, turbine che alimentano intere città.
Eppure, paradossalmente, in Italia l’espressione “fatto in Italia” o peggio “fatto all’italiana” evoca un’idea di pressappochismo, improvvisazione, cialtroneria. Una distorsione culturale che non nasce dalla realtà, ma da una narrazione tossica. Colpa, in larga parte, dei media che, tra mille eccellenze, scelgono quasi sempre di raccontare solo le lacune, le disfunzioni, i fallimenti.
Così, la nostra sanità pubblica — che l’OMS colloca tra le migliori al mondo per qualità e accessibilità — viene quotidianamente descritta “allo sfascio”. La nostra rete autostradale, una delle più complesse e meglio interconnesse d’Europa, capace di gestire flussi di traffico enormi e di affrontare territori difficili, viene ricordata quasi esclusivamente per le code estive o per i cantieri. Lo stesso accade per le nostre università, che formano premi Nobel e ricercatori leader nella fisica, nella biomedicina, nell’ingegneria, ma che nell’immaginario collettivo restano “arretrate” o “inefficienti”. Costruiamo dighe monumentali che sfidano le montagne, ma nella memoria collettiva resta solo il Vajont.
Il risultato è un Paese che all’estero è ammirato e copiato, mentre dentro i propri confini si racconta e si percepisce come mediocre.
L’Italia è come quel ragazzo brillante e geniale che realizza cose straordinarie, ma continua a sentirsi un fallito perché nessuno lo ha incoraggiato a credere in sé stesso. Un Paese i cui ingegneri hanno costruito grattacieli negli Emirati, ponti sospesi in Sud America, viadotti arditi in Asia e infrastrutture in zone sismiche dove altri avrebbero rinunciato.
Eppure, quando si parla del Ponte sullo Stretto di Messina, c’è sempre qualcuno pronto a dire che “non ne siamo capaci”.
È un’assurdità. Le nostre aziende di ingegneria e costruzioni hanno firmato progetti tra i più ambiziosi del pianeta: dal nuovo Canale di Panama alla diga di Gibe III in Etiopia, dai ponti di Istanbul che uniscono continenti fino a quelli che attraversano vallate himalayane. Possiamo sfidare oceani e deserti, ma in patria ci convincono che non potremmo unire due sponde che distano poco più di tre chilometri.
E la Sicilia? Nella narrazione mediatica è ancora evocata solo come la terra della Mafia e del degrado. Un’immagine comoda, che serve a giustificare l’inerzia e a mascherare l’assenza di visione. Perché dire “lì è inutile investire” è molto più facile che riconoscere la realtà: una regione che ospita il Distretto tecnologico aerospaziale di Catania, che lavora fianco a fianco con l’ESA e la NASA; i laboratori dell’INFN, leader mondiali nella fisica nucleare; il polo di Enel Green Power, leader nelle celle fotovoltaiche di nuova generazione; aziende agroalimentari che vincono premi e conquistano mercati globali. E non dimentichiamo reparti medici di eccellenza come l’ISMETT di Palermo, centro all’avanguardia nei trapianti e nella chirurgia ad alta complessità, o l’Ospedale “Cannizzaro” di Catania, riferimento nazionale per la chirurgia plastica e la gestione delle grandi ustioni.
Eppure, c’è chi sostiene che investire in questi territori sia una perdita di denaro. Nel 2013, Mario Monti diede la prova plastica di questa mentalità, dirottando i fondi già stanziati per il Ponte sullo Stretto per destinarli a opere nel Nord Italia, perpetuando l’idea che il Sud sia un “pozzo senza fondo” invece che una risorsa strategica per il Paese. È la stessa logica che, da decenni, tiene il Sud inchiodato alla narrazione del fallimento, negandogli la possibilità di dimostrare di essere all’altezza — e spesso, superiore — agli standard del resto del Paese.
Sentire addirittura gli stessi siciliani o calabresi dichiararsi orgogliosi di dire “no” al Ponte, scendendo persino in strada a manifestare contro un’opera che li metterebbe sotto i riflettori di tutto il mondo e ribalterebbe l’immagine di arretratezza proiettata da quei vecchi traghetti a gasolio, lascia davvero basiti. Diego Fusaro giustifica così la sua contrarietà: «Un’opera inutile che unisce il niente al nulla». Questa è la considerazione che ha lui, e tanti come lui, di questi territori. E anziché ribellarsi e rivendicare il loro ruolo strategico, molte comunità finiscono per interiorizzare e perpetuare quella rassegnazione tipica del Sud, trasformandola quasi in motivo di vanto. Una forma di auto-svalutazione che, più di ogni ostacolo tecnico o economico, frena lo sviluppo e condanna il futuro.
Questo non è realismo: è auto-sabotaggio culturale.
Ripensando alle parole di Marco Tullio Cicerone, mi torna alla mente una domanda antica quanto attuale: cui prodest? A chi conviene davvero fermare un’opera capace di spezzare l’isolamento secolare della Sicilia, di cucirla al resto del Paese, di farne una meta capace di richiamare milioni di persone, rapite dalla visione di una campata unica che si innalzerebbe maestosa sullo scenario leggendario di Scilla e Cariddi, rendendolo immortale agli occhi del mondo?
La criminalità attecchisce e prospera là dove l’orizzonte è stretto, dove le menti sono più facili da chiudere che da aprire. È in questi recinti invisibili che il potere trova la sua forza. E così, quando si vuole tenere prigioniero un popolo, non sempre si abbattono ponti: spesso, semplicemente, si impedisce che vengano costruiti. Perché mantenere lo status quo è l’arte più sottile del dominio.

