IL GIOCO AL MASSACRO CONTRO LA MUSICA ITALIANA

di Ernesto Bonanni

Una interessante disamina del panorama culturale e musicale italiano dagli anni ’70 ad oggi.

Risulta francamente difficile capire certi atteggiamenti della critica musicale italiana. Molti dei probabili motivi, tuttavia, sono chiarissimi nell’articolo “Scuola/ dove passa la strada per ricostruire un’etica pubblica?” in particolare ove si mette in rilievo che l’unità nazionale è, soprattutto, un sentimento, un modo di essere, e se questo sentimento non lo possiedi, non te lo puoi dare.

L’essere italiano, anzi Italiano con la I maiuscola, deve avere un presupposto storico dentro le coscienze di ognuno. Noi, in Italia, questo presupposto non l’abbiamo. Fingiamo di averlo, ci affanniamo a ricostruirlo in mille manifestazioni che infatti altrove non esistono, almeno non nella nostra portata ed intenzione. La Resistenza, declinata in mille modi quasi si trattasse di cronaca di ieri anziché un pezzo di storia del nostro paese lontano ormai ottant’anni. E’ subentrata al Risorgimento del quale, di colpo, ci siamo dovuti vergognare quasi che il regnante unificatore, nonno, dovesse scontare le colpe dell’insulso nipote. Con le orripilanti scelte del penultimo re abbiamo condannato contestualmente l’episodio principale, e ben più antico, su cui ogni stato fonda il proprio orgoglio, quello dell’unificazione, e solo perché posti in essere dalla medesima dinastia.

Tantissimi sono quelli che, in Italia, sanno cosa significa il giorno quattro di luglio 1776 per gli Stati Uniti D’America; Provate ad improvvisarvi intervistatori chiedendo ai passanti in che giorno si è unificata l’Italia. Probabilmente non vi azzeccheranno nemmeno l’anno. E tanto basti ad esemplificare su quale lastra di cristallo ben oliata deve aggrapparsi il nostro sentimento nazionale per tentare di sopravvivere. L’italiano non ha storia, seppure il nostro territorio ed i suoi abitanti siano sempre stati, da almeno duemila anni, quelli che hanno deciso molto dell’indirizzo del pianeta. In occidente, le nostre città hanno rappresentato punti di riferimento almeno fino all’avvento della Lega Anseatica. Gli abitanti della nostra penisola hanno inventato gran parte di quel che ha avuto un significato, almeno fino all’ultima grande guerra, ma non hanno avuto un collante per troppi secoli. Lo ricordava Mameli: “uniscaci un’unica bandiera, una speme, di fonderci insieme già l’ora suonò”. La bandiera l’abbiamo; Per quanto riguarda il fonderci, niente da fare. Tuttora.

Ma torniamo a Bomba, come diceva l’illustre mio corregionale Silvio Spaventa. La musica. Personalmente ritengo che un po’ tutto quel che doveva avvenire, nella critica musicale italiana, sia frutto di una situazione politico-sociale nei primi anni settanta, situazione che, nell’ambito musicale, pur trasformandosi, non ha trovato soluzione di continuità come negli altri ambiti.

Chi, come me, non è più di primo pelo ricorderà che ogni cosa in quel periodo aveva una valenza univoca: O era di destra o era di sinistra. Gaber ci scrisse una canzone. E in quel periodo successero due cose quasi contestuali che furono un vero terremoto per il mondo musicale nazionale: l’avvento dei cantautori, dominati da quelli caratterizzati socialmente e politicamente e l’ingresso delle Majors americane, con i pezzi originali, nel mercato italiano. I primi, i cantautori, provocarono letteralmente l’estinzione immediata, quasi fossero dinosauri, di gran parte degli interpreti della canzone all’italiana. Le grandi case invece tolsero l’acqua ai gruppi musicali italiani, i cosiddetti “complessi musicali” che tanto piacevano ai giovani anni sessanta, sorti ad imitazione dei gruppi britannici ma che, a differenza di questi, cantavano solo cover con testi più o meno tradotti. Risultato: Rimasero in piedi, tra rock e melodici, i pochi gruppi che si scrivevano le proprie canzoni, PFM, BMS, Pooh, Nomadi e qualche altro, in un panorama che pochi mesi prima contava centinaia di band. Una vera ecatombe. Molti musicisti iniziarono altre attività, qualcuno, più testardo, si ritrovò dal palco di Sanremo o Canzonissima a quello della pizzeria o della pro loco, in sei mesi, e ci riuscivano i più fortunati. Alcune band si riciclarono in cover-band, ufficializzando peraltro quello che erano sempre state.

I critici, fino ad allora impegnati nelle diatribe filosportive tra i fan di Latilla e quelli di Togliani, poi tra i melodici Villa e Tajoli contro gli urlatori Modugno e Dallara, passando per i primi alieni rockettari Celentano e Di Capri, si ritrovarono di colpo con la spada di Salomone in mano. Le case discografiche nostrane non contavano più niente. Il potere era nella politica, con i cantautori schierati, e i soldi con gli americani appena arrivati. Sei mesi prima si doveva inventare qualcosa su Tony Astarita e Marisa Sannia, ora arrivano James Brown e Tom Jones. Cominciò il gioco al massacro contro la musica italiana, tranne quella d’autore, cioè politica, ben protetta se si voleva conservare il posto al giornale, e per gli adolescenti innamorati c’erano le nuove versioni dei melodici, rigorosamente cantautori, come Baglioni e Battisti sopportati (dalla critica) perché coprivano il buco in una consistente fetta di mercato.

Da allora la critica musicale italiana non è mai più uscita dallo stereotipo filo americano e filo britannico assumendo che la canzone italiana, d’ora in poi dovesse proseguire su quella via e non seguire una via autonoma oppure, peggio del peggio, ritornare ai classici nazionali, definitivamente declassati a vecchiume inascoltabile. Come si confà ad una nazione senza storia. Appunto.

4 commenti

  1. Caro Ernesto, condivido ogni tua parola ed è interessantissimo leggere questa disamina della storia musicale italiana. Ma io andrei oltre, anche se rischio di essere tacciata di complottismo.
    Sono infatti convinta che ci siano pressioni straniere dietro il disfattismo della nostra stampa, i cui editori hanno tutti interessi oltre confine. Pressioni che hanno per scopo quello di farci credere un paese mediocre ed impedirci di avere una autostima, un orgoglio e un senso di unità nazionale che ci renderebbero molto pericolosi e troppo competitivi sul piano economico, tecnologico e politico, (anche per la nostra posizione geografica) per altre nazioni concorrenti .
    Già così siamo la terza potenza industriale in EU e secondi solo alla Germania per esportazioni, ma l’importante è che la popolazione lo ignori e continui a deprimersi e lagnarsi per disfunzioni e difetti che hanno tutte le nazioni, convincendosi che “accadono solo in Italia” e di essere “gli ultimi della classe” . Questo riguarda anche la musica, la maggior parte degli italiani è tenuta all’oscuro dei successi dei nostri artisti all’estero e, se proprio non riescono a negarli, li deridono accusandoli di rappresentarci male e in maniera “antiquata”( cioè non scopiazzando il genere anglossassone).
    I ragazzi de Il Volo, poi, sono doppiamente pericolosi perché rappresentano tutte le qualità positive della “italianità” e potrebbero addirittura costituire un esempio emulativo per la nostra gioventù vista la loro età e l’appeal che hanno anche sugli adolescenti. Questi giovani infatti ripropongono i valori italiani di attaccamento alla famiglia, serietà, impegno, studio, determinazione, semplicità unita alla professionalità, un modello di vita sano – non si drogano, non fumano, non bevono – tutte qualità che all’estero ci ammirano ma che in Italia cerchiamo di annullare per seguire il modello di vita di stampo anglosassone, tra l’altro declinato nella sua versione peggiore. Il problema è che anche in Italia i loro fan aumentano continuamente e con loro ritrovano persino un orgoglio nazionale, una riscoperta dei nostri valori e del nostro patrimonio musicale, quindi sono deleteri per il conformismo in negativo che i media cercano di imporre.
    Non può infatti essere causale l’attacco scatenato su tutta la stampa nazionale contro di loro all’indomani della loro partecipazione al Festival e ogni volta che fanno la loro apparizione in pubblico in Italia. C’è chiaramente una regia e non è facile sconfiggerla. Lo scopo è chiaramente quello di scoraggiarli ad esibirsi in Italia e alcuni, dalle pagine dei quotidiani, lo hanno persino detto apertamente “andate all’estero e restateci”.

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