L’omicidio del piccolo Loris e la bestia mediatica

 

Di solito seguo poco i fatti di cronaca, so a malapena chi siano Yara o Stasi, perché mi interessano di più le notizie di politica. Per questo motivo non avevo mai seguito programmi televisivi come “quarto grado”  o “chi l’ha visto”.

Però ogni mattina sfoglio i giornali online e, inevitabilmente, mi cadeva l’occhio sui titoli riguardanti l’omicidio del piccolo Loris che erano in prima pagina.

Purtroppo, i media ci hanno ormai talmente assuefatto alla violenza in ogni suo aspetto che dopo il primo momento di comprensibile orrore per la morte atroce di un bambino ero pronta a passare oltre, come mi era capitato per altri casi di cronaca.

Quindi perché questa vicenda giudiziaria mi ha poi catturata al punto di non riuscire a pensare ad altro?

Ricordo che il primo articolo a destare il mio interesse fu quello che titolava  “la madre ha mentito, il percorso che ha indicato non è quello inquadrato dalle telecamere” e pensai subito: “ E allora? Si sarà confusa. Non vorranno mica insinuare che sia stata lei, è talmente evidente che questo omicidio non presenta alcuna caratteristica tipica degli infanticidi o figlicidi.”

Nessuna madre assassina, infatti, si sarebbe disfatta del corpo in quel modo. Le madri che uccidono i propri figli lo fanno in un attimo di follia e poi vagano in stato confusionale dopo aver compiuto l’insano gesto, con ancora in mano l’arma del delitto. Quando si rendono conto di ciò che hanno fatto crollano, si disperano, tentano il suicidio, se non lo avevano già programmato subito dopo la morte del figlio. Spesso nella loro visione distorta della realtà volevano proteggere il loro bambino ed evitargli sofferenze perché ritengono il mondo un luogo minaccioso in cui vivere. Le madri assassine non sono freddi e scaltri sicari che premeditano, si creano alibi o nascondono le evidenze. Le madri assassine sono donne alienate, disperate o visibilmente disturbate. Le madri assassine non vogliono sottrarsi alla giustizia, ma espiare la loro colpa.

Così iniziai a seguire con maggiore interesse il caso e mi accorsi dell’evidente intento della stampa di crocifiggere quella giovane donna. La bestia mediatica sembrava aver fiutato la preda e si apprestava a maciullarla senza alcuna remora, per consegnarla ad una folla già opportunamente incitata e pronta al linciaggio.

Prima ancora della notizia dell’arresto, su tutti i quotidiani apparve il titolo che tutti ormai si aspettavano: “E’ stata lei”, abilmente  preannunciato in un crescendo di illazioni e finte certezze. Era il segnale destinato a scatenare la folla ululante, una folla non dissimile da quella che si precipitava sotto il patibolo a godere delle sofferenze del condannato. Non a caso si parla di “gogna mediatica” intendendo che il suo carattere si discosta poco dalle torture inflitte arbitrariamente in tempi che oggi chiamiamo “bui”.

Difficile pensare che dietro articoli così letali (ne uccide più la penna della spada), che dimostrano l’assenza del “più elementare senso di umana pietà” per una giovane madre che ha appena perso il suo bambino, ci siano a scriverli persone in carne ed ossa, che eseguono ordini di “scuderia” dettati solo dalla  insaziabile brama di audience e di click sulla pagina, da tradurre in soldoni grazie ai contratti di pubblicità.

In questo come in altri casi, per giunta, si insinua la sgradevole impressione che siano stati i media, prima ancora degli inquirenti, a dirigere i riflettori sulla madre dopo aver abbandonato la pista del cacciatore, influenzando pesantemente non solo l’opinione pubblica ma anche gli stessi inquirenti. Chi non ricorda i titoli che si sono rincorsi per giorni come un tam tam su tutti i giornali: “la madre ha mentito”, “la sua versione non convince”, e poi la notizia quasi trionfante “E’ stata lei!”  che lasciava credere che avesse confessato o fosse stata inchiodata da prove schiaccianti.
E mentre la bestia mediatica attanagliava con sempre maggiore ferocia la sua vittima, agli occhi della maggior parte della gente avveniva la trasfigurazione: la donna minuta e fragile, impietrita dal dolore, che aveva commosso l’intero paese, si trasformava progressivamente in una assassina “dall’indole malvagia” capace di “infliggere sofferenza” al proprio bambino “con un’azione efferata”.
Si può supporre che anche i magistrati possano essere vittime di questo condizionamento collettivo che, una volta insinuatosi nelle loro menti, li porta a costruire un impianto accusatorio basato sulle loro convinzioni, ignorando gli indizi contrari ma anzi adeguandoli per farli combaciare con la loro tesi.”

Credo sia stata quindi l’indignazione a spingermi ad abbracciare questa causa con convinzione, il profondo senso di ingiustizia per il modo in cui è stata gestita questa vicenda, dover assistere impotente al rito dell’agnello sacrificale consegnato ad una opinione pubblica obnubilata e morbosa.

Perché ad essere in pericolo non è solo l’integrità fisica e morale di Veronica Panarello ma di ciascuno di noi.

Patrizia Ciava (trishadria)

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Gli avvenimenti delle ultime settimane hanno reso evidente la necessità di una seria regolamentazione dell’informazione nel nostro paese. Non è infatti concepibile che i media possano impunemente pubblicare stralci di intercettazioni e atti coperti dal segreto istruttorio in maniera, tra l’altro, del tutto arbitraria, sforbiciando opportunamente qua e là al fine di orientare l’opinione pubblica ed emettere giudizi che assumono spesso la connotazione di vere e proprie condanne. Notizie parziali, manipolate o addirittura inventate vengono riportate con il copia-incolla su tutti i quotidiani e nei programmi televisivi senza che vi sia alcuna verifica da parte delle autorità preposte a vigilare e senza che sia data alla parte interessata alcuna possibilità di contrapporre la propria versione dei fatti.

Occorre sottolineare che nel nostro paese pretendere il rispetto delle più elementari regole di deontologia professionale è considerata una violazione della libertà e non si considera mai che la libertà di ciascuno finisce dove inizia quella dell’altro.

Il nuovo testo del codice deontologico dei giornalisti, presentato alcuni mesi fa dal garante privacy, è stato accolto con appelli pubblici infarciti di formule suggestive, come “bavaglio”, “coltre di silenzio” “divieti al diritto di cronaca” utili a creare un clima di allarme ed ingraziarsi così una opinione pubblica beota ed ignara.

Di fronte a questa presa di posizione il presidente, Antonello Soro, ha ritenuto opportuno precisare che il Garante per la privacy ha segnalato l’esigenza di aggiornare l’attuale codice dei giornalisti, vecchio di più di quindici anni, e che non ha mai pensato di stabilire divieti o attentare alla libertà di informazione ma che l’esercizio di tale diritto non può arrivare fino al punto di mettere in gioco altri diritti fondamentali, fino al limite di violare, in alcune circostanze, la dignità delle persone.

Purtroppo non esiste un limite predeterminato per legge. L'”essenzialità dell’informazione” costituisce, da oltre un decennio, la dimensione giuridica utilizzata dai giornalisti per esercitare il bilanciamento tra diritto di informare e diritto alla privacy. Il codice deontologico, previsto dal legislatore e non dal Garante, costituisce una forma di autoregolamentazione attraverso la quale i giornalisti possono individuare criteri e misure più adatti per realizzare questo equilibrio.

Tuttavia, nel caso di atti giudiziari, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che per colpa o per dolo rivela o agevola la conoscenza di notizie segrete commette un delitto, previsto dall’art. 326 del codice penale. Chi riceve la notizia non risponde del reato, salvo che egli abbia concorso in esso, ad esempio sollecitando la violazione con piena conoscenza della segretezza della notizia richiesta.

Con il pretesto della libertà di stampa, si è arrivati a superare dei limiti che in un paese civile dovrebbero essere invalicabili e che vanno a ledere i principi fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo dell’Unione Europea.

La Convenzione europea, infatti, riconosce una serie di diritti personali e civili quali la dignità umana e il diritto all’integrità della persona, la proibizione della tortura (anche morale) e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, il rispetto della vita privata e della vita familiare, la protezione dei dati di carattere personale e, soprattutto, la presunzione di innocenza fino a prova contraria.

Questi diritti fondamentali dell’uomo sono ripetutamente violati da anni nel nostro paese, ma questo abuso è particolarmente grave nel recente caso di cronaca in cui ad essere vittima della gogna mediatica è una giovane madre che ha appena perso il figlioletto di 8 anni.

L’onorevole Andrea Vecchio, di Scelta Civica, è l’unico parlamentare ad essere andato a trovare Veronica Panarello in carcere, per motivi puramente umanitari, dopo che una folla inferocita, opportunamente incitata dai media, era andata davanti al carcere ad urlare “assassina, assassina, devi morire” all’indirizzo di una donna che nessun tribunale ha ancora giudicato colpevole.

Prima ancora della notizia dell’arresto, su tutti i quotidiani era apparso il titolo: “E’ stata lei”, abilmente  preannunciato in un crescendo di illazioni e finte certezze. Era il segnale destinato a scatenare la folla ululante, una folla non dissimile da quella che si precipitava sotto il patibolo a godere delle sofferenze del condannato. Non a caso si parla di “gogna mediatica” intendendo che il suo carattere si discosta poco dalle torture inflitte arbitrariamente in tempi che oggi chiamiamo “bui”.

Questo, in un paese civile, non deve più accadere.

Intervista al Procuratore Capo Petralia sul caso dell’omicidio del piccolo Andrea Loris Stival – l’influenza dei media sulle indagini :

“Il rischio della pressione mediatica è che possa indurre a imboccare e individuare un unico filone di indagine, trascurando altri segmenti indiziari che si presentano come meno proficui in vista dei risultati immediati….Insomma il pericolo è che spinga a fare presto, troppo presto”

Ecco le nuove “tricoteuses” che imperversano su Facebook e in altri social network.

Le “tricoteuses” erano le donnine che strillavano di gioia a ogni decapitazione mentre lavoravano a maglia sedute in prima fila intorno al patibolo sul quale era montata la ghigliottina.

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Ma oggi sono più pericolose perché non si accontentano di fare da spettatrici ma contribuiscono a innalzare il patibolo, spronate dal giustizialismo becero e rabbioso di certe trasmissioni televisive che hanno proprio il compito di supportare le procure, specie quando l’impianto accusatorio vacilla, e di scatenare folle di squilibrati che vogliono solo sfogare le frustrazioni di una vita inutile.

Un commento

  1. Di solito accade esattamente come dici, dopo l’omicidio del figlio , la madre reagisce piu’ o meno come dici tu e di solito no ci ette molto a confessare cio’ che ha fatto-Fu per questo che quando ci fu l’omicidio di una madre Rosalia quartara, tali punti di riferimento crollarono tutti .La vittima, maria,di 18 anni fu brutalmente uccisa a colpi di scopettone sula testa e emnetre il sangue inondava la cugina, la signora rosalia nonn si perse comunque d’animo, avvolse la testa della figlia in un busta di plastica, la sigillo con del nasctro adesivo e chiamo’ il suo amante affinche’ si liberasse del corpo. ….come vedi i casi sono tanti e sempre piu’ cmplicati

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